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VIDEO | Dalla scabbia ai trapper, il carcere minorile del Pratello raccontato dal ‘don’

PoliticaVIDEO | Dalla scabbia ai trapper, il carcere minorile del Pratello raccontato dal ‘don’

BOLOGNA – Dai casi scabbia agli attacchi di panico. E poi le risse tra detenuti, l’autolesionismo, il senso di abbandono, le precarie condizioni igieniche e le “visite vuote” di politici e dirigenti ministeriali. Ma anche l’importanza della scuola e del lavoro, seppur dietro le sbarre, grazie a cui risollevarsi. E’ lo spaccato che fa luce sul carcere minorile del Pratello di Bologna e, allo stesso modo, un po’ su tutti gli istituti penali minorili, con le storie e le condizioni in cui vivono i giovani detenuti. Minori italiani, italiani di seconda generazione e minori stranieri non accompagnati, accomunati da storie di violenze domestiche, di abbandoni e vagabondaggi, di spaccio, racket, bullismo e aggressioni. A metterle nero su bianco è don Domenico Cambareri, cappellano del Pratello, in dodici lettere raccolte poi in un libro, ‘Ti sogno fuori. Lettere da un prete di galera‘, edito dalle Edizioni San Paolo.

“È un titolo che può sembrare quasi irrispettoso dopo i tragici accadimenti a Bologna, la nostra città, a Paderno Dugnano, le rivolte nelle carceri minorili di Milano, Torino, Roma- dice don Cambareri, parlando alla ‘Dire’- eppure io sono tra quelli che non si stancano di sognare un futuro fuori per i ragazzi che hanno sbagliato. Nessuna concessione alla superficialità quindi, ma duro lavoro di educazione alla responsabilità”, senza “arrendersi all’idea che debbano stare dentro per pulirci la coscienza”. Le lettere sono un dialogo ideale con Y., uno dei tanti ragazzi che don Cambareri ha incontrato nel carcere minorile di Bologna e che oggi vive libero, dopo aver scontato la sua pena. Ma nel suo personaggio, in realtà, il prete racchiude anche le tante vicende giovanili incontrate negli anni di servizio al Pratello.

Nelle missive, il cappellano del carcere minorile di Bologna inserisce a mo’ di lezione e consiglio anche diverse citazioni, affiancando Seneca ai trapper più ascoltati dai ragazzi in carcere e nei cui testi si rivedono (Baby Gang, Medy Cartier, Il Tre, Guè Pequeno, Marracash, Gheba, Neima Ezza). Nel suo libro, don Cambareri non nasconde inoltre le sue critiche al sistema penitenziario italiano. Secondo il prete, la “comunità adulta” dovrebbe dare “un serio segnale d’empatia verso questi ragazzi”. E invece, le “recenti disposizioni governative, penso alle disposizioni successive ai tragici eventi di Caivano, non vanno in questa direzione. Rappresentano piuttosto la reazione di una comunità senile che, temendo i giovani, non comprendendoli, li criminalizza“.

Nel suo libro il prete descrive quattro categorie di ragazzi in carcere. C’è chi esce, come A, “rimesso in libertà e condotto a Bari per essere espulso. Ammalato di diabete, viene riportato in stazione perché nessuno si assume la responsabilità di rimpatriarlo, a causa della sua situazione sanitaria. Gira per Bologna perché la questura non gli rilascia i documenti necessari. Lo Stato né lo rimpatria né lo regolarizza. Che autorità avrà questo Stato, ai suoi occhi?”. Poi c’è chi torna in prigione, come W, “che non è riuscito a resistere alla tentazione delle canne e della porta senza sbarre che dava sulla strada trafficata. È tornato per la terza volta dalla comunità”. C’è anche chi resta, come D, che “sembra star bene solo in carcere, perché fuori sarebbe candidato a un’overdose dopo forse una settimana. Qui prende peso e colore, e sorride”. E infine c’è chi sparisce, come A, che “ha subito tanti di quegli abusi in galera che non vuole neanche più parlare con me, perché purtroppo anch’io, involontariamente, gli ricordo quei quattro mesi terribili. Ogni tanto qualche messaggio su Instagram”.

Rispetto al carcere minorile di Bologna, scrive ancora il prete, “quel luogo mi ha fatto sentire un ingenuo, non solo per la scabbia. Essa rappresenta l’ennesima conferma che mi convince di stare frequentando una delle comunità più abbandonate del nostro Occidente“. Si tratta di un luogo “duro– afferma il cappellano del carcere minorile- dove tutti oggi stanno male, operatori compresi, in uniforme e senza uniforme, ma un luogo da cui non è completamente assente la luce di una qualche bellezza. È il ‘mare fuori’ della fortunata serie televisiva: non tutto è perduto, c’è sempre una possibilità di riscatto“. Rimane forte, comunque, anche la critica al sistema penitenziario italiano.

“Detesto questo sistema che vi costringe a essere violenti per non subire violenza”, scrive il prete in una delle lettere al ragazzo, a cui in carcere vengono date tre indicazioni: “Riga dritto, fai le attività, rispetta tutti“. Ma, afferma don Cambareri, “sappiamo che quella è la modalità sicura, ma non scontata, per uscire da un istituto penitenziario minorile, sappiamo anche però che non protegge dal rientro”. Lo Stato, aggiunge in altra lettere, “dovrebbe promuovere una giustizia che, pur condannando, salvi la persona”. In questo senso, invece, la scuola in carcere “produce sempre piccole meraviglie”, così come lavorare da detenuto “è rivoluzione e contestazione”. Il carcere, così com’è strutturato, secondo il cappellano del Pratello invece non aiuta il recupero dei ragazzi.

Quanti occhi neri, lividi, tagli causati da lavandini, docce, pavimenti bagnati ho visto in questi anni- scrive don Cambareri- quante labbra spaccate che avrebbero voluto dirmi verità che si spegnevano subito e quante verità, invece, ho ascoltato impotente. Perché forte è la legge della prigione. Ti imprigiona sempre di più”.
Secondo il cappellano del Pratello, invece, “educare è la vera punizione verso chi ha commesso reati, diventare responsabili di sé guarirà loro e converrà a noi che sosteniamo un sistema inutile alla prova dei fatti: la restituzione ‘attiva’ del reo alla vita sociale”. Un ragazzo detenuto, afferma don Cambareri, “muore fuori dai nostri sentimenti, dalle nostre istituzioni, dalle università, dai dibattiti, dalla cultura, dai programmi e, quando è fuori da tutto ciò, si spegne, si incattivisce, si tribalizza. Si muore fuori da tutto quando si è abbandonati“.
Con questo libro, spiega infine il prete, “ho sperato di restituire qualcosa del tanto che questi ragazzi hanno dato alla mia umanità, che altrimenti rimarrebbe inaudibile, una sinfonia di volti e storie luminose e oscure per contribuire ad abbattere pregiudizi ed evitare di scaricarci la coscienza. Dietro i loro fallimenti intravvedo i miei di adulto. Sono i nostri ragazzi, rimangono tali sia quando ci fanno meravigliare, sia quando ci fanno inorridire; in questo caso forse ancora di più”.

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